AGRETTA

I più ricercati erano quelli che abili baristi ci tenevano da parte stappando le bibite con speciali apribottiglie che non li deformavano. I tappi si riempivano di stucco o di plastilina per appesantirli, sopra s’incollava la foto di qualche campione del ciclismo ritagliata da un giornalino; poi ci si giocava al Giro d'Italia o al Tour de France ai giardinetti, facendoli correre a ditate in una pista tracciata col gesso, con tanto di salite (linee sottilissime a zigzag che costringevano a particolare attenzione per non uscire dal tracciato), classifica di tappa e classifica generale. Ci si passava anche un pomeriggio intero per completare un circuito.
(Flavio Casella)

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BALIA

Ho avuto una balia asciutta che ho amato moltissimo.
Io, figlia non voluta da mia madre, sono stata affidata a “una donna del popolo” perché mi allevasse. Così, invece che  nella casa borghese in cui ero nata, ho trascorso i miei primi anni di vita con la balia Maria che viveva in una casa accanto a un ruscello. Al piano di sotto c’erano le galline e qualche altro piccolo animaletto. Maria mi faceva fare di tutto anche se ogni tanto mi sgridava, ma con dolcezza. Alla sera andavamo tutte  nel lettone e Maria raccontava storie bellissime a me e a sua figlia. Quando i miei genitori mi richiamavano a casa, a me veniva la febbre e così mi riportavano nella casetta sul ruscello.
(Concetta Piazzetta)

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TIRABACI

Ricordo che da piccoli, quando uscivamo con i nostri genitori, c’era il rito del vestirsi bene. Dovevamo essere inappuntabili mio fratello e io; con me risultava difficile perché all’ultimo momento ne combinavo sempre una che rovinava il lavoro di mia madre; mio fratello, invece, era sempre perfetto e, per completare l’opera, gli veniva acconciato un ricciolo  biondo sulla fronte e mia madre concludeva: «Ora sei proprio bello, hai anche il tirabaci».
(Concetta Piazzetta)

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RADIOFONOBAR

Nella stanza da pranzo della casa dei miei genitori c’era un mobile affascinante e proibito a me e a mio fratello: si chiamava radiofonobar.
Aveva i lati bombati e, quando si aprivano, luccicavano di tante piccole tesserine fatte di specchi; a metà erano divisi da un ripiano di cristallo. Quando rimanevo da sola in casa con mio fratello, vuotavo velocemente la parte piena di bottiglie di liquori e ponevo sul ripiano in basso il soggiorno e il salotto della mia bambola, costituito da mobili in miniatura perfetti nelle finiture, e al ripiano superiore la stanza da letto. Tutto si trasformava, grazie al gioco dei piccoli specchi, in un mondo incantato in cui si perdevano i miei sogni di bambina.
(Concetta Piazzetta)

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TOLLINO

Era un gioco prettamente maschile, ma anche io ed altre bambine ci divertivamo a farlo coi maschi.
Pensate a Milano negli anni '50: le macchine erano rare, sia parcheggiate che in transito; le vie, i marciapiedi e tutti gli spazi erano di noi bambini che praticamente vivevamo per strada. Le piste, realizzate col gesso, erano lunghe decine di metri, con vari saliscendi dai passi carrai (che erano i percorsi di montagna) e circuiti a curve difficili da superare senza rischiare di andare fuori dalle righe. Il percorso simulava una corsa ciclistica: i tollini infatti erano imbottiti all'interno con la foto rotonda di un corridore, quindi ognuno correva col proprio tollino e il suo campione. Ore ed ore felici ed entusiasmanti di questo gioco fatto di niente, in una città a misura di bambino.
(Gabriella Gandola)

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COMPAGNO

Parola bellissima anche nella sua etimologia: compagno deriva dal latino medievale companio ‘che mangia lo stesso pane’, comp. di cum ‘con’ e panis ‘pane’.
Ho ancora nell’orecchio la forma allocutiva «Care compagne, cari compagni» usata nelle assemblee e nei comizi; ho ancora nella memoria e nel cuore il sogno di quegli anni.
Nessuna parola ha mai racchiuso come questa il significato ideale della solidarietà e dell’appartenenza, l’aspirazione all’uguaglianza, l’impegno a battersi per una società più giusta.
Un intero partito depositario di storia e di esperienze è stato cancellato; con esso sono venuti a mancare non solo il termine “compagno”, ma tutto l’orizzonte lessicale della sinistra: lotta, solidarietà di classe, proletariato; ogni ricordo, ogni simbolo, ogni memoria di quella tradizione sono stati rimossi.
La parola compagno, se pronunciata oggi, è perfino capace di suscitare polemiche. Oggi dobbiamo chiamarci «democratici». Il sol dell’avvenire è tramontato per sempre. Non così l’aspirazione millenaria a una società più libera, più egualitaria e più felice.
 (Alfredo Tamisari)

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CARTA DA ZUCCHERO

Ai miei tempi non usava già più. Eppure, come tutte le cose che restano in parte sconosciute, quel nome era fortemente evocativo. Mia madre lo adoperava come sinonimo di colore, per definire una tinta: «color carta da zucchero» diceva mentre parlava con le sorelle riferendosi  al taglio di un tessuto o di un abito. Da ragazza avevo un tailleur di questo colore, che era diventato appunto il «tailleur carta da zucchero». L’insieme però aveva un che di crepuscolare: sparito da tempo l’oggetto cui si riferiva, sarebbe scomparso anche il significante. Così avvenne infatti; oggi quelle tre parole non sono usate nemmeno più per indicare un riferimento cromatico. E molti, forse, ne ignorano l’origine.
(Tatiana Bertolini)

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SLEPPA

Termine onomatopeico molto usato dalle mamme e dalle nonne ferraresi al posto di schiaffo, sberla. Parlo di un tempo in cui le sleppe volavano senza tanti complimenti arrossando le gote di bambini e bambine. «Guarda che ti dò una sleppa!» era una minaccia a cui seguiva spesso l’esecuzione. Un sinonimo era pappina, parola che pare un diminutivo-vezzeggiativo, ma che in realtà stava a significare un’azione ancora più energica, spesso mimata dal braccio piegato a gomito e dal dorso della mano minacciosamente agitato vicino al viso: le pappine erano quelle che «giravano la faccia».
La mia mamma ricorreva invece agli «sculaccioni», che facevano meno male, erano meno oltraggiosi e non lasciavano segni. Tuttavia anch’io, in un lontano pomeriggio assolato, mi beccai una sferzante sleppa (o era una pappina?) da una ragazzina più grande di me, imbufalita dalle mie audaci quanto maldestre avance: da allora la lasciai stare. Ancora la ricordo la bella Gabriella e la sua impietosa lezione! Se solo avesse capito che io, piccolino, volevo solo farmi strada tra i suoi tanti filarini!
(Alfredo Tamisari)

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STOMACARE

L’aggettivo ‘stomachevole’ è ancora usato, il verbo stomacare molto meno, sia in senso letterale (dare nausea) che in senso figurato (disgustare moralmente). Il nonno umiliava talvolta la nonna: «Sempre la stessa minestra, mi ha stomacato!». La nonna, che mangiava esclusivamente radicchi, esclamava schifata, naturalmente nel suo dialetto: « La carne? Dio mama come mi stomaca!».
Dalle donne del cortile udivo spesso giudizi negativi nei confronti di paesane e paesani, fino ad arrivare alla dichiarazione finale di chiusura del rapporto: «Non lo (la) sopporto più: m’ha proprio stomacato».
Con l’avanzare dell’età, mi sto accorgendo di essere sempre più spesso stomacato dal rumore e dal chiacchiericcio e condivido quanto Leopardi scrisse: «Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini». Sto imparando a difendermi col silenzio, ma non è sempre facile.
(Alfredo Tamisari)

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CHIERICO

Così mio marito chiama, per gioco, le persone secondo lui un po’ bigotte e baciapile. «Tuo padre è un chierico», disse la prima volta che lo conobbe, osservando che i miei familiari recitavano una piccola preghiera prima del pasto. D’altronde la parola designa “membri del clero secolare o regolare”, oltre che "seminaristi”: uomini di Chiesa, il contrario, anche ideologicamente, di laici, dice  lui.
(Maria Teresa Norero)

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